A seconda del proprio modo di vedere e di pensare, il Discorso della Montagna suscita idee molto diverse. Per alcuni, il Discorso della Montagna è il culmine assoluto e non piú superabile di un’etica umana; per altri, rappresenta un radicalismo pericoloso, un idealismo estraneo al mondo, che manderebbe all’aria ogni tipo di ordine, nel caso dovesse ispirare la vita di tutti i giorni. Comunque, gli si riconosce un qualche significato nel modo di pensare e di agire personali; ma in campo sociale e politico, lo si lascia piuttosto fuori discussione. Con le massime del Discorso della Montagna—così si dice allora—, non si può fare alcuna politica realistica; chi nondimeno ci volesse provare, apparterrebbe alla categoria degli utopisti e degli esaltati. Come per la maggior parte dei concetti e degli slogan caricati di significati emozionali, anche per quanto riguarda il Discorso della Montagna è bene sottoporlo ad una analisi spassionata. Si tratta di capire che cosa effettivamente significhi il Discorso della Montagna; a che cosa ci possa servire.
L’espressione “Discorso della Montagna” indica quei testi che si trovano nel Vangelo di Matteo al quinto, sesto e settimo capitolo e che cominciano nella maniera seguente: “Vedendo le folle, Gesù sali sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo…”. A ciò seguono immediatamente le otto beatitudini. Sulla base di questa introduzione si è dato all’intera composizione il nome di “Discorso della Montagna”—il primo a chiamarlo così fu Agostino in un sermone su “Il discorso del Signore sulla montagna”, dell’anno 393. Oltre a questo significato più ristretto e tecnico, si parla del Discorso della Montagna anche in un senso più ampio e si intende allora l’intera “etica di Gesù”, tutti gli insegnamenti etici del Gesù storico, che sono riassunti e raggiungono il loro culmine assoluto nel comandamento dell’amore di Dio e del prossimo o nel comandamento dell’amore per il nemico. In questo senso, il Discorso della Montagna è considerato il compendio del peculiare contenuto etico del cristianesimo. E questo è giustificato sotto vari punti di vista.
Per farci un’idea più chiara di questo testo, dobbiamo considerare più da vicino il suo specifico carattere letterario. Se si prende in mano il Nuovo Testamento e si legge il testo del Vangelo di Matteo, si può subito notare che, per quanto riguarda il Discorso della Montagna, non si tratta di una predica o di un discorso continuo, bensì di un testo composto di innumerevoli scritti più brevi. Il che diventa ancora più evidente se si consulta un’edizione sinottica dei Vangeli e si confronta il testo di Matteo con quello di Marco o di Luca. Perciò, si considera il Discorso della Montagna una collazione di altri discorsi. A chi si deve propriamente questa stesura? A questa domanda cosi risponde l’esegesi contemporanea: questa stesura del Discorso della Montagna, quale si presenta nella sua redazione definitiva, è opera dell’evangelista Matteo; non si tratta quindi di un discorso che Gesù avrebbe tenuto cosi come lo conosciamo adesso. Allora, nel Discorso della Montagna non abbiamo a che fare direttamente con l’”etica di Gesù”, ma con un compendio abbastanza sistematico degli insegnamenti etici di Gesù, collegato a tutta una serie di aggiunte ulteriori dovute alla comunità o all’evangelista stesso. Sicuramente, Matteo ha utilizzato testi della tradizione che dovevano originariamente risalire a Gesù stesso. Questo però non è sostenibile per tutti i testi.
Ma per quale scopo Matteo ha redatto questa versione del discorso? L’evangelista Matteo appartiene senza dubbio alle grandi figure dei maestri della Chiesa primitiva. Ha una capacità considerevole di riassumere in maniera chiara e semplice il materiale che gli era stato tramandato e di elaborarlo didatticamente per la sua cerchia di discepoli. Gli interessava soprattutto comunicare l'”insegnamento di Gesù” agli uomini che volevano diventare ed essere discepoli di Gesù. Come è noto, la conclusione del Vangelo di Matteo suona: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 19-20). Queste parole conclusive del Gesù risorto contengono anche il programma teologico del Vangelo di Matteo. Si tratta di far diventare possibilmente “tutte le nazioni” seguaci di Gesù, soprattutto trasmettendo ai nuovi discepoli gli insegnamenti e le massime di Gesù, oltre al battesimo. Il Vangelo di Matteo è nato probabilmente in una cerchia di persone, in una comunità o in un gruppo in cui si era interessati ad un insegnamento regolare, a lezioni sistematiche. Per questo tipo di insegnamento protocristiano ci si poteva attenere al modello delle scuole ebraiche degli scribi. Perciò, non a torto l’evangelista Matteo è stato detto un “Rabbi cristiano”. Ma in queste lezioni—e in ciò esse si distinguono radicalmente dall’ora di religione di una scuola moderna—, non si trattava solo di un apprendimento puramente teoretico, di una mera trasmissione del sapere, bensì si trattava al tempo stesso di mettere in pratica insieme ciò che si aveva appena ascoltato. Secondo la concezione giudaica e protocristiana, l’ascoltare e il mettere in pratica erano inscindibilmente connessi. Il Discorso della Montagna serve appunto a questo scopo. È, per così dire, una sorta di “scuola di base” per i discepoli di Gesù, un’esercitazione elementare che introduce al cristianesimo, per come lo intende l’evangelista Matteo. Oltre a ciò, questo evangelista teneva molto ad un “cristianesimo pratico dell’azione”. Questo non significa che non tenesse anche alla professione di fede in Gesù Cristo, al “dogma cristologico”. In lui si trova la famosa professione di fede di Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 16). Ma a questa professione di fede cristiana deve aggiungersi incondizionatamente la messa in pratica degli insegnamenti di Gesù; solo la professione di fede non basta. Una fede che non si manifesti e dimostri in opere è per Matteo una fede molto insufficiente, che non basta affatto per dirsi cristiani. In Matteo, l’accento decisivo è posto sulla “prassi di Gesù”; in questo si mostra la forte influenza dell’eredità ebraica.
Si deve considerare ancora un altro punto. Nel Vangelo di Luca (Lc 6, 20-49) si trova un testo, il cosiddetto Discorso del Campo, che si può confrontare molto bene con il Discorso della Montagna. Se li si analizza, risulta che il Discorso della Montagna di Matteo e il Discorso del Campo di Luca hanno molti passi in comune. Entrambi i discorsi cominciano con le beatitudini; entrambi contengono una parte abbastanza lunga sull’amore per il nemico; a questo segue nei due testi il divieto di giudicare gli altri; e poi la metafora dell’albero buono che dà buoni frutti. Entrambi i discorsi terminano con la metafora della giusta costruzione di una casa. Da questi elementi comuni si deduce che il Discorso della Montagna e il Discorso del Campo risalgono ad una tradizione e ad una fonte comuni che si può considerare la fonte dei due discorsi, visto che si tratta probabilmente di una raccolta molto antica di parole di Gesù. Tutto il testo del Discorso del Campo di Luca si trova anche in Matteo e per di più nello stesso ordine. Solo, Matteo ha distanziato questi testi tra di loro ed ha inserito molti altri passi negli spazi intermedi così ottenuti. Attraverso questo procedimento letterario, Matteo è riuscito a trasmettere un’immagine insolitamente efficace degli “insegnamenti etici di Gesù”, il cui fascino è rimasto inalterato fino ad oggi.
Come si deve intendere il Discorso della Montagna, che cosa significa? Questo è il problema più complicato posto dal Discorso della Montagna, e la sua soluzione è ancora oggi controversa. Non deve meravigliare che ci siano diverse interpretazioni sia nella valutazione delle singole parti che nella comprensione dell’intero Discorso della Montagna. Del resto, questo è connesso alla particolarità di questi testi che non intendono presentare né semplici ricette di comportamento, né un “sistema etico” completo e naturalmente nemmeno un programma politico diretto. Ma questo non significa che in questi testi si tratti solo di un determinato modo di pensare e non anche di una prassi concreta. Alcune interpretazioni tratte dalla tradizione cristiana ci aiuteranno a vedere più chiaramente il problema.
Secondo la versione più antica, e cioè quella dello stesso Vangelo di Matteo, si tratta di insegnamenti che riguardano tutti coloro che vogliono essere veri discepoli di Gesù, e cioè tutti i cristiani. In fondo, gli insegnamenti del Discorso della Montagna valgono per tutti. Certamente, già in Matteo si trova il problema che la prassi umana rimane in gran lunga indietro rispetto alla radicalità e all’incondizionatezza delle richieste di Gesù. È palese questa tensione tra la sfida radicale del Discorso della Montagna da una parte e la limitatezza ed insufficienza umana dall’altra, che si rivelano nella messa in pratica di quella sfida; ma questo non è un motivo per temperare la richiesta o per rinunciare alla sua realizzazione nel mondo. Si chiarisce piuttosto che l’agire cristiano si muove proprio in questo campo di tensione, da cui trae anche la sua dinamica peculiare.
Anche la Chiesa antica ha ritenuto in generale che gli insegnamenti del Discorso della Montagna valessero per tutti i cristiani. Eppure, con l’aumento del numero di questi si diffuse relativamente presto l’opinione che la ‘provocazione’ radicale del Discorso della Montagna valesse solo per i ‘perfetti’, per gli asceti ed i monaci, mentre al cristiano medio potevano bastare i dieci comandamenti del Vecchio Testamento. Così, si giunse alla distinzione tra i ‘comandamenti’, praecepta, che valgono senza eccezione per tutti i cristiani, ed i ‘consigli evangelici’, conszlia, che erano in questione solo per i cristiani che avessero la nobile esigenza di perfezionare se stessi. Questa distinzione tra i comandamenti per i cristiani medi e le alte richieste fatte ai monaci era la concezione cattolica tradizionale nel Medioevo, rimasta tale fino agli inizi del nostro secolo. Si può dire che questa concezione corrispondeva ad un realismo pastorale che teneva ampiamente conto della situazione effettiva della società cristiana e della natura umana. Del resto, il rovescio della medaglia è che, attraverso questa ripartizione, la messa in pratica del Discorso della Montagna è stata più o meno rimessa alla devozione privata, ai monaci e ai conventi, mentre si è ampiamente rinunciato ad una cristallizzazione del mondo, il che ha degli effetti negativi ancora oggi. Certamente non si può negare che ci siano stati in ogni tempo cristiani che hanno voluto vivere secondo gli insegnamenti del Discorso della Montagna; una delle testimonianze più considerevoli in proposito è il Movimento Francescano, con la sua grande diffusione. Tuttavia, valeva come regola generale che il “laico”, il cristiano medio, non avesse bisogno di mettere in pratica il Discorso della Montagna, con la conseguenza che fino al ventesimo secolo la voce “Discorso della Montagna” restò ampiamente sconosciuta nella teologia morale cattolica.
La soluzione di Martin Lutero è strettamente connessa con la cosiddetta dottrina dei due regni. Per Lutero e per i riformatori, il Discorso della Montagna vale in linea di principio per tutti i cristiani, ma soltanto, o soprattutto, in quanto riguarda il comportamento personale e fintantoché non comporta alcun danno per il prossimo. Il singolo cristiano è messo alla prova dagli insegnamenti di Gesù nel suo comportamento personale; ma non può mettere in pratica i suoi precetti semplicemente a spese del prossimo; I’amore del prossimo può rendere necessario un altro tipo di comportamento. Soprattutto per quanto riguarda faccende pubbliche, nello Stato e nella società, anche il cristiano deve opporre resistenza al male e non si può semplicemente tirare indietro sulla base del rifiuto della violenza presente nel Discorso della Montagna. Perciò, secondo Lutero si deve distinguere tra il “cristiano” e il “cittadino del mondo”.
Esiste infine una terza risposta radicale che emerge prevalentemente in gruppi cristiani radicali, nei cosiddetti “eretici”. In questo caso, si tratta di mettere in pratica la ‘provocazione’ del Discorso della Montagna senza limitazioni né tagli, di farlo valere anche nell’ambito sociale e politico, di farlo diventare diritto vigente. Gli esempi più noti di questa posizione sono Tommaso Muntzer e gli anabattisti al tempo della Riforma ; oggi potrebbero essere i quaccheri e alcune altre sette. Il pericolo che si corre consiste nel fatto che questa comprensione ‘statutaria’ del Discorso della Montagna può capovolgersi in un falso radicalismo che contraddice profondamente il radicalismo peculiare del Discorso della Montagna, che è in fondo un radicalismo dell’amore e della libertà.
La situazione presente è caratterizzata da una nuova stringente discussione sul messaggio e sull’ambito di validità del Discorso della Montagna. Si è chiarita una cosa: non si può comprendere il Discorso della Montagna nel suo insieme né nei suoi dettagli se non si richiama il quadro completo e lo sfondo dell’annuncio di Gesú. Ma questa cornice generale è l’annuncio che fa Gesú della prossima venuta del Regno di Dio, la buona novella che esso è vicino. Con ciò entra in gioco lo specifico messaggio di salvezza di Gesú e la connessa comprensione della fede e della salvezza, e cioè che si tratta di agire e vivere a partire dalla incondizionata volontà di salvezza di Dio, a partire dalla certezza di una salvezza che proviene dall’amore di un Dio che libera. La formulazione programmatica: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino: convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1, 15) è anche la premessa fondamentale per la comprensione e la messa in pratica del Discorso della Montagna. Il movimento di conversione, espiazione e fede, questa trasformazione radicale dell’uomo, del suo pensare ed agire, si articola negli insegnamenti del Discorso della Montagna; e viceversa, la prassi etica del Discorso della Montagna è sempre in qualche modo connessa con la conversione e la fede. Perciò, nella sua impostazione di fondo, il Discorso della Montagna non è “legge” ma “evangelo”; non è semplicemente comandamento apodittico ma dono, grazia, nuova possibilità di vita, vita nella certezza salvifica della salvezza e nel compimento dell’uomo. A questo punto, anche la nozione di un'”etica di Gesú” diventa problematica. Se per etica si intende il complesso dei doveri umani sotto il segno di un imperativo categorico, allora in base a questo modello si potrebbe a malapena considerare il Discorso della Montagna come un'”etica”. E questo perché nel Discorso della Montagna non c’è un “tu devi” all’inizio, ma una promessa, un impegno, le “beatitudini” appunto. Passiamo ora a queste.
Sia il Discorso del Campo di Luca che il Discorso della Montagna di Matteo cominciano con una serie di versetti che si indicano come beatitudini a causa del ripetersi della formula introduttiva “beati…”. La versione di Luca è piú corta ed è formulata nello stile del discorso diretto (Lc 6, 20-23):
Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio.
Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati
Beati voi che ora piangete, perché riderete.
Beati voi quando gli uomini vi odieranno
e quando vi metteranno al bando e v’insulteranno
e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell’uomo.
Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli.
Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i profeti”.
In Luca, alle beatitudini, e quasi in opposizione ad esse, seguono le condanne (Lc 6, 24-26):
Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame.
Guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete.
Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi
Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i falsi profeti”.
Mentre la forma delle beatitudini di Luca sembra piú diretta ed originaria rispetto alla forma di Matteo, le condanne in Luca non dovrebbero essere originali ma dovrebbero risalire all’evangelista di Luca. La versione di Matteo delle beatitudini (Mt 5, 3-12), che normalmente viene citata, ha al contrario un effetto piú solenne e maestoso Inoltre, contiene quattro beatitudini in piú:
Beati gli afflitti, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché erediteranno la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno
e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.
Cosí infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi”.
Si è spesso riflettuto recentemente se la traduzione “beati” sia ancora adeguata all’uso linguistico odierno. L’ormai invecchiata tradizione unitaria aveva così reso il termine greco makàrios, “beato”: “Felici quelli che sono poveri davanti a Dio… (wobl denen)”. Oppure, la “Buona Novella”: “Si rallegrino tutti coloro che stanno davanti a Dio a mani vuote… (Freuen durfen sich alle)”. Ma basta ascoltare attentamente per accorgersi che queste innovazioni non raggiungono nemmeno da lontano la piena risonanza della parola “beati”, con il suo voler significare una beatitudine piena ed insuperabile. Inoltre, anche la “beatitudine” appartiene ad un particolare genere letterario che si trova soprattutto nella letteratura sapienziale e nei testi apocalittici. Si vedano in proposito due esempi.
Nel salmo 1 si dice:
ma si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte”.
Qui, si dice beato l’uomo religioso che dedica tutta la sua vita allo studio della torah e alla sua messa in pratica. E nei cosiddetti Salmi di Salomone (17,44) scritti nel primo secolo avanti Cristo, si dice:
nell’unità delle tribù, quale sarà operata da Dio!”.
In questo caso, si dicono beati gli ebrei religiosi che saranno testimoni della salvezza messianica finale. La differenza decisiva delle beatitudini del Discorso della Montagna risiede soprattutto nel fatto che Gesú promette da subito a certi uomini la salvezza finale del Regno di Dio, e quindi la pienezza salvifica dell’amore di Dio in tutta la sua potenza. Soprattutto Nietzsche ha sentito in modo particolarmente intenso che cosa accade qui, allorché dice:
“Sono stati gli ebrei—e Gesú era uno di loro—ad aver osato capovolgere con una conseguenza terrificante lo schema aristocratico dei valori (buono = nobile = potente = bello = felice = amato da Dio) e ad aver difeso con i denti dell’odio piú abissale (l’odio dell’impotenza) che solo i miseri sono buoni, i poveri, gli impotenti; gli umili soltanto sono buoni; i sofferenti, gli sfruttati, i malati, i deformi sono i soli religiosi, i soli fedeli; per loro soltanto c’è beatitudine, “
È chiaro che Nietzsche pensa qui soprattutto al Discorso della Montagna, al qui proposto “capovolgimento dei valori”; qui ha luogo la vera e propria “rivolta degli schiavi nella morale”. Le beatitudini hanno il carattere di una violenta ‘provocazione’; e se non lo cogliamo piú è solo perché l’abitudine o l’indifferenza ci hanno intorpidito.
Le prime tre di queste beatitudini risalgono certamente a Gesú stesso (secondo Luca). Al primo posto, la beatitudine dei “poveri”. A questi poveri, viene incondizionatamente promessa la salvezza del Regno di Dio, la salvezza in tutta la sua inesauribile pienezza. Ma chi sono questi poveri, o, come dice Matteo, questi “poveri in spirito”? Naturalmente, non si intendono gli stupidi o gli handicappati psichici, anche se certo essi non sono neanche da escludere. Nella tradizione ebraica vetero-testamentaria, il concetto “i poveri” ha sia una componente sociale che una componente religiosa, non si può sottovalutare nessuno dei due aspetti. “I poveri” sono quindi veramente i nullatenenti, la gente che non possiede nulla, quelli che vivono alla giornata, quelli che per la loro miseria sociale appartengono alla classe dei subordinati, degli oppressi, degli impotenti. I poveri quindi, quelli che oggi vivono soprattutto nel Terzo Mondo, ma non solo là. Questi poveri sono però anche i privi di diritti, quelli che nessuno aiuta, che possono fare affidamento solo su Dio; quelli che sono piú coscienti di dipendere da Dio. Secondo l’insegnamento dei profeti e dei salmi, è Dio stesso che si prende particolarmente cura proprio di questi poveri. A loro, va la particolare premura di Dio; a loro, Dio dona tutta la salvezza. Mentre in Luca è posto piú fortemente in risalto l’accento sociale della povertà, Matteo sottolinea piuttosto l’accento religioso con l’espressione “i poveri in spirito” (Lutero traduce: beati quelli che sono poveri spiritualmente), perciò la traduzione unitaria dice: “Beati quelli che sono poveri davanti a Dio”. Di nuovo, ciò non può far dimenticare il riferimento sociale.
Gli “afflitti” o “quelli che ora piangono” sono gli uomini che soffrono per i tristi rapporti di questo mondo, per le ingiustizie sociali e politiche, per guerre e discordie di ogni tipo, per il male che viene fatto ogni giorno nel mondo. Anche nella beatificazione degli “affamati”, Matteo fa un’aggiunta: “quelli che hanno fame e sete della giustizia”. Qui non si tratta solo della giustizia sociale in senso lato, bensì della salvezza globale, in cui certamente trova piena soddisfazione il bisogno elementare di giustizia che ha l’uomo, vale a dire il bisogno di uno Stato di “ordine divino del mondo”.
Alcune altre beatitudini si trovano solo in Matteo. I “miti” sono probabilmente i non-violenti che rinunciano a voler instaurare il Regno di Dio con la violenza, a differenza dei ribelli zeloti e dei rivoluzionari di ogni sorta. I “misericordiosi” sono gli uomini che hanno pietà e sanno perdonare, i generosi. I “puri di cuore” sono gli uomini trasparenti, onesti, leali, che non conoscono né inganno, ne ipocrisia, né menzogna. Gli “operatori di pace” sono persone che si impegnano attivamente per la pace, che risolvono i conflitti e promuovono la riconciliazione. La serie si chiude in Luca e in Matteo con la beatificazione dei perseguitati ingiustamente, e allora entrambi gli evangelisti pensano soprattutto ai discepoli di Gesú perseguitati nel loro tempo. Ma ciò non esclude che si possa pensare, in questo caso, a tutti coloro che sono oppressi ingiustamente da un qualsiasi regime, che sono internati in carcere o in campi di concentramento e vengono sottoposti alla tortura.
Per queste ultime beatitudini di cui si è parlato, occorre dire che esprimono intenzioni che stavano particolarmente a cuore all’evangelista Matteo. Costituiscono una sorta di parentesi rispetto all’intero Vangelo di Matteo. Mentre le prime tre beatitudini pongono l’accento soprattutto su particolari atteggiamenti di fondo, le altre beatitudini aggiunte da Matteo sottolineano piuttosto le virtù attive e il tipo di condotta del cristiano. Per Matteo, entram6i i lati sono importanti: la grazia e la promessa divina, ma anche il comportamento umano che da queste scaturisce, la nuova prassi dei discepoli di Gesú. Ancora oggi, il problema è appunto questa prassi. Resta sempre il compito di vedere e stabilire l’intrinseca connessione tra intenzione ed azione; evidentemente, un’interpretazione puramente privatistica del Discorso della Montagna non è sufficiente. Del resto, per la messa in pratica del Discorso della Montagna non ci sono neanche limiti esterni. Una fede viva si sforzerà sempre di agire secondo l’insegnamento di Gesú, per quanto sarà in grado di farlo, in tutte le sfere della vita, e quindi anche nella politica— comunque a partire da un radicalismo dell’amore e della libertà connesso ad una saggia ragion pratica.
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