di Stefano Zamagni
Il Canto XI del Paradiso è il Canto nel quale Dante si spende per il celebre elogio a san Francesco. Proprio nel 2009 si commemora l’VIII centenario dell’approvazione del francescano propositum vitae da parte di Innocenzo III. Ma oltre a ciò il pensare francescano sta prepotentemente tornando d’attualità in quell’ambito specifico, eppure importante, della vita associata che è la sfera economica.
Dal XII secolo prese avvio un processo di profonda trasformazione della società e dell’economia europea che durò fino alla metà del XVI secolo. Iniziò in Italia, in Umbria e Toscana, ma già sul finire del XIII secolo quel processo si era esteso anche ad altre regioni, nelle Fiandre, nella Germania settentrionale, nella Francia meridionale. Fu la cultura monastica la matrice dalla quale scaturì il primo lessico economico che si diffonderà in tutta l’Europa del basso medioevo. L’ “ora et labora” di Benedetto non era semplicemente la via per la santità individuale, ma il fondamento di quella che si affermerà come una vera e propria etica del lavoro basata sul principio della mobilità del lavoro che già il giudaismo aveva affermato.
L’esperienza del monachesimo, benedettino e cisterciense, rappresentò a sua volta il punto di arrivo della riflessione sulla vita economica che già i Padri della Chiesa, a partire dal IV secolo, avevano avviato con rigore sottoponendo il rapporto con i beni terreni al vaglio dell’etica cristiana. Beni e ricchezza non venivano condannati in sé, ma solo se male usati, cioè se considerati come fine e non come strumento. Speciale attenzione, ai nostri fini, merita il movimento cistercense. Sotto l’impulso di Bernardo di Clairvaux, tale ordine ebbe un enorme successo nella competizione con l’abbazia «rivale» di Cluny in Borgogna.
I cistercensi si trovarono sin da subito a dover affrontare due questioni di natura economica.
La prima riguardava l’atteggiamento da tenere nei confronti del lavoro. Mentre per i cluniacensi, la sussistenza doveva essere assicurata dal lavoro delle persone ad essi sottoposte – i cosiddetti secolari –, i cistercensi sostenevano che era illecito vivere del frutto del lavoro altrui. Donde il rifiuto sia di ogni forma di rendita sia delle decime – le due principali fonti di entrata dei benedettini di Cluny.
La seconda questione concerneva il regime di proprietà. Mentre la Regola di Benedetto affidava all’abate il possesso di tutti i beni (individuali e collettivi) con i quali doveva provvedere ai bisogni dei monaci, i cistercensi rifiutavano ogni possesso, anche quello di chiese e altari. La Carta Caritatis, considerata la costituzione cistercense fondamentale e la cui versione finale risale al 1147, è su tale punto di una fermezza irremovibile.
Quale la conseguenza, certamente non voluta né prevista, di tale duplice atteggiamento? Che lo stile di vita dei cistercensi, ben lontano dal lusso dei cluniacensi e improntato a rigore e povertà estrema, finì con l’attirare l’attenzione della gente che inondò di donazioni i loro monasteri. Accade così che, nel giro di pochi decenni, i seguaci di Bernardo si trovarono prigionieri della contraddizione che scaturiva dalla loro stessa spiritualità: vita sobria (e quindi bassi consumi) e lavoro altamente produttivo – il sovrappiù agricolo che riuscivano ad ottenere era superiore a quello realizzato nelle imprese tradizionali – avevano creato «l’imbarazzo della ricchezza».
Toccherà ai francescani trovare la via d’uscita definitiva, con l’invenzione dell’economia di mercato civile. Francesco, fondatore di un movimento eremitico trasformatosi, con uno sviluppo folgorante, in ordine mendicante, recepisce da Bernardo sia il principio secondo cui i contemplantes devono diventare anche laborantes, sia la regola per la quale i frati dovevano rinunciare anche alla proprietà comune. È rimasta celebre la durezza con la quale Francesco apostrofava i frati oziosi, che chiamava “«frati mosca» e «fuchi» e la severità con cui riprendeva «chi lavorava più con le mascelle che con le mani».
Se ne distacca però su un punto fondamentale: se si vuole trovare uno sbocco al sovrappiù generato in agricoltura e nella mercatura, e così ovviare all’imbarazzo della ricchezza, occorre dilatare lo spazio dell’attività economica facendo in modo che tutti possano parteciparvi. Occorre cioè arrivare alle città dove vive la più parte della popolazione da evangelizzare, creando appunto mercati. (Si rammenti l’insistente domanda di Jacques Le Goff sul perché i nuovi Ordini mendicanti – domenicani e francescani – fossero così attratti dalle città).
Come Giacomo Todeschini ha autorevolmente messo in luce, il convincimento in base al quale vi sarebbe un’insanabile inconciliabilità tra «economia di profitto» e «economia di carità», è privo di solido fondamento. Due sono le novità che il francescanesimo introdusse nell’orizzonte dell’epoca. La prima è che, se usare dei beni e delle ricchezze è necessario, possedere è superfluo. Il che porta a concludere che «grazie alla povertà, poteva essere più facile usare e far circolare la ricchezza».
La seconda novità è che, se si vuole che i frati possano esercitare con continuità la virtù della povertà, è necessario che questa sia sostenibile, cioè possa durare nel tempo. Ecco perché si ricorre all’aiuto di laici – amici spirituali dell’Ordine – cui affidare la gestione del denaro. L’idea che una qualche divisione funzionale del lavoro sia necessaria prende così a diffondersi.
A partire dal 1241, anno della prima Esposizione della Regola, l’analisi sulla povertà dei frati si allarga alla società intera. Gli uomini di cultura guardano ai «contenuti profondamente economici della scelta pauperistica di Francesco e dei suoi seguaci» non più soltanto come via verso la perfezione individuale in senso cristiano, ma come «un ordine economico-sociale della collettività nel suo insieme». A Bonaventura da Bagnoregio, Ugo di Digne e John Peckham il merito di aver formulato il principio secondo cui la sfera economica, quella governativa (della civitas) e quella evangelica (secondo il carisma francescano), «sono tre gradi differenti ma integrabili di un’organizzazione della realtà». Se questa integrazione si realizza, essa genera frutti copiosi, così che ciò cui i poveri volontari rinunciano può essere impiegato per i poveri non volontari, fino alla loro tendenziale scomparsa.
Ebbene, così come il pensiero e l’opera del francescanesimo svolsero un ruolo determinante nel passaggio dal feudalesimo alla modernità, altrettanto decisive esse appaiono oggi nell’attuale passaggio d’epoca dalla modernità alla post-modernità. Non c’è da meravigliarsene: quando si prende atto della crisi di civilizzazione che incombe si è quasi sospinti a guardare con simpatia alla vicenda umana di Francesco per il quale l’inizio di una nuova vita, a livello anche sociale ed economico, è in una capacità di sguardo diversa sulla realtà: «Ciò che mi pareva amaro mi fu convertito in dolcezza dell’anima e del corpo». Dante fu tra i primi ad averlo afferrato, ed è anche per questo che merita lode.
11 Settembre 2009 – Copyright 2009 © Avvenire
Scrivi un commento