pubblichiamo con piacere la relazione della conferenza tenuta da fra Marco Asselle Ofm in occasione della giornata di fraternità regionale Ofs di domenica 22 Novembre 2009 a S. Maria degli Angeli
INTRODUZIONE
La Caritas in Veritate (d’ora in poi CV) doveva uscire circa un anno fa, più precisamente il primo maggio del 2008, in occasione della festa di san Giuseppe Lavoratore. Il ritardo dell’uscita è da attribuirsi al fatto che Benedetto XVI voleva aspettare di capire quale piega avrebbe preso la crisi economica, sociale e etica che ancora oggi ci coinvolge, per poter dire una parola profetica.
Anche se la parola “crisi” ci inquieta perché non ci sono sicurezze è anche vero che, come sosteneva l’epistemologo Thomas Kuhn, tutta l’evoluzione del pensiero umano si sviluppa passando da una crisi (lui usava il termine “rivoluzione”) ad un’altra. Sembra che il momento che stiamo vivendo è una rivoluzione sociale che paragonabile a quella Rivoluzione Industriale.
Il Pontefice parla della crisi al numero 21 dicendo: “La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità. In questa chiave, fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del momento presente”.
Questo invito può essere rivolto anche a voi, fratelli del Terz’Ordine, che state vivendo dei forti cambiamenti nella struttura delle vostre fraternità.
L’ENCICLICA CV LETTA CON GLI OCCHI DI SAN FRANCESCO
La CV esce in occasione del 40 anniversario dell’enciclica Popolorium Progressio di Paolo VI nella quale si parlava dello sviluppo dell’uomo e dei popoli. Paolo VI fu il primo a parlare di sviluppo integrale (e non solo economico).
Egli definiva lo SVILUPPO come l’obiettivo di far uscire i popoli dalla fame, dalla miseria, dalle malattie endemiche e dall’alfabetismo; più precisamente ciò significa:
dal punto di vista economico la partecipazione attiva e in condizioni di parità al processo economico internazionale;
dal punto di vista sociale, l’evoluzione verso società istruite e solidali;
dal punto di vista politico, il consolidamento di regimi democratici in grado di assicurare libertà e pace.
Allora l’uomo è chiamato a svilupparsi in tutti i suoi ambiti (sviluppo INTEGRALE), in quanto egli non è fatto a compartimenti stagni (a questo proposito il Papa critica un certo enciclopedismo nella cultura). Di conseguenza, la Chiesa, intesa come la comunità dei credenti in Cristo, è chiamata ad impegnarsi a questo sviluppo su tutti i fronti, a 360 gradi. Ed è per questo che Benedetto invita la Chiesa ad aprirsi ad un impegno pubblico, che vada oltre alla coltivazione di un rapporto intimo e individuale con Dio, e che non si esaurisce nell’attività caritativa. All’inizio del suo documento il Pontefice scrive: “Si ama tanto più efficacemente il prossimo, quanto più ci si adopera per un bene comune rispondente anche ai suoi reali bisogni. Ogni cristiano è chiamato a questa carità, nel modo della sua vocazione e secondo le sue possibilità d’incidenza nella pólis. È questa la via istituzionale — possiamo anche dire politica — della carità, non meno qualificata e incisiva di quanto lo sia la carità che incontra il prossimo direttamente, fuori delle mediazioni istituzionali della pólis.” (n. 7).
Il Pontefice ci chiede quindi di uscire dalla sfera privata per impegnarci più direttamente al bene comune della nostra città, del nostro Paese, investendo le nostre energie nell’ambito politico (non solo strettamente inteso, anche quello) creando istituzioni che si impegnino allo sviluppo dell’uomo.
Vediamo ora di far emergere le intuizioni francescane che emergono nella CV. Per far ciò seguirò la struttura del documento che consta di sei capitoli.
Dicevamo che il Papa ci invita ad uscire dalle nostre case ed impegnarsi nel campo pubblico, nella res publica;; ma su quale fronte?
La risposta la incontriamo nel PRIMO CAPITOLO, in cui si richiama il messaggio della PP e vengono presentati alcuni FATTORI DI SVILUPPO, che rimangono validi ancora oggi e sono:
a. L’etica della vita (da una parte si affermano valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace; dall’altra c’è una disistima della vita umana più debole ed emarginata)
b. Libertà responsabile (solo se attuato in termini di libertà e responsabilità, lo sviluppo può essere umano)
c. Verità del bene umano integrale (di tutto l’uomo e di tutti gli uomini; senza l’amore e l’obbedienza alla verità sull’uomo e su Dio proposta dal Vangelo, diventa problematico ordinare i bisogni, i desideri e le modalità del loro soddisfacimento secondo una giusta gerarchia di beni-valori che rispetti da dimensione di trascendenza della persona)
d. Mancanza di Fraternità tra gli uomini e tra i popoli (la globalizzazione ci rende più vicini ma non più fratelli)
e. Carenza di pensiero (servono uomini di pensiero capaci di riflessione profonda, votati alla ricerca di un umanesimo nuovo, che permetta all’uomo moderno di ritrovare se stesso)
f. La carità di Cristo (ci spinge a mobilitarci con il cuore, per far evolvere gli attuali processi economici e sociali verso esiti pienamente umani)
Successivamente, nel SECONDO CAPITOLO, Benedetto XVI affronta il tema dello Sviluppo umano nel nostro tempo.
Denuncia alcuni OSTACOLI ANCORA PRESENTI PER IL VERO SVILUPPO, per esempio
– L’ECLETTISMO E APPIATTIMENTO CULTURALE: “le culture vengono semplicemente accostate e considerate come sostanzialmente equivalenti e tra loro interscambiabili. Ciò favorisce il cedimento ad un relativismo che non aiuta il vero dialogo interculturale; sul piano sociale il relativismo culturale fa sì che i gruppi culturali si accostino o convivano ma separati, senza dialogo autentico e, quindi, senza vera integrazione. In secondo luogo, esiste il pericolo opposto, che è costituito dall’appiattimento culturale e dall’omologazione dei comportamenti e degli stili di vita. In questo modo viene perduto il significato profondo della cultura delle varie Nazioni, delle tradizioni dei vari popoli, entro le quali la persona si misura con le domande fondamentali dell’esistenza. Eclettismo e appiattimento culturale convergono nella separazione della cultura dalla natura umana. Così, le culture non sanno più trovare la loro misura in una natura che le trascende, finendo per ridurre l’uomo a solo dato culturale” (n. 26).
Talvolta c’è un disinteresse per l’altro, non vogliamo conoscere la sua cultura perché non vogliamo entrare in dialogo, non vogliamo essere fratelli.
Noi potremmo chiederci come il nostro essere francescani ci aiuta a dialogare con culture diverse: Francesco quando andò a parlare al Sultano volle entrare in dialogo, nel pieno rispetto, con la cultura islamica, ma era ben lungi dal pensare che tutte le culture sono uguali.
– MENTALITÀ ANTINATALISTA: “L’apertura alla vita è al centro del vero sviluppo. Quando una società s’avvia verso la negazione e la soppressione della vita, finisce per non trovare più le motivazioni e le energie necessarie per adoperarsi a servizio del vero bene dell’uomo. Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono. L’accoglienza della vita tempra le energie morali e rende capaci di aiuto reciproco. Coltivando l’apertura alla vita, i popoli ricchi possono comprendere meglio le necessità di quelli poveri, evitare di impiegare ingenti risorse economiche e intellettuali per soddisfare desideri egoistici tra i propri cittadini e promuovere, invece, azioni virtuose nella prospettiva di una produzione moralmente sana e solidale, nel rispetto del diritto fondamentale di ogni popolo e di ogni persona alla vita”. (n. 28)
– ATEISMO PRATICO che comporta un sottosviluppo morale: “Quando lo Stato promuove, insegna, o addirittura impone, forme di ateismo pratico, sottrae ai suoi cittadini la forza morale e spirituale indispensabile per impegnarsi nello sviluppo umano integrale e impedisce loro di avanzare con rinnovato dinamismo nel proprio impegno per una più generosa risposta umana all’amore divino”. (n. 29).
BENEDETTO XVI invita tutti gli uomini di buona volontà a trovare nuove soluzioni (n.32).
Queste nuove soluzioni possono essere ricercate, dal punto di vista dello sviluppo economico, all’interno della società civile. Ed è questo il tema del TERZO CAPITOLO.
Il titolo di questo capitolo è Fraternità, sviluppo economico e società civile.
Il Pontefice propone una visione economica che trova le sue origini nel francescanesimo.
Mi soffermerei un attimo ad illustrarvi meglio questo aspetto nel quale emerge l’influenza del pensiero francescano.
Come sapete, dietro una certa visione economica si nasconde una precisa visione antropologica.
Nella riflessione del pensiero delle scienze economiche, e più in generale, delle scienze sociali si sono contrapposte due visioni antropologiche differenti.
La prima, che potremmo chiamare “ottimista” trova le sue radici nel pensiero di Aristotele e viene successivamente accolta da quello che venne chiamato “primo umanesimo civile” che ebbe come protagonisti i francescani. Non a caso questo movimento, che nasce in Italia (in particolare in Toscana) tra il Trecento e il Quattrocento, vede come data simbolica della sua fine il 1444 anno della morte di Leonardo Bruni e di Bernardino da Siena, le due figure leader del movimento dell’umanesimo civile. Secondo questa visione essendo l’uomo un “debole animale, per sé insufficiente, raggiunge la sua perfezione solo nella civile società (Leonardo Bruni)”.
L’uomo si perfeziona, o potremmo dire, si sviluppa, solo all’interno della Polis, della comunità. Attraverso il suo impegno per il bene pubblico il cittadino sviluppa se stesso e il suo popolo (sviluppo integrale di tutto l’uomo e di tutti i popoli).
Ed è su questa linea che prende vita l’invenzione più significativa di questo periodo che sono i MONTI DI PIETÀ.
Nell’umanesimo civile c’era la consapevolezza che ciò che dava dignità all’uomo era la sua possibilità di collaborare al bene comune (della polis). Veniva condannato il “frate mosca” colui che non volendo lavorare si tirava fuori dal circolo virtuoso della costruzione del bene comune.
Lo sviluppo per essere integrale deve permettere a TUTTI di poter partecipare allo sviluppo del proprio Paese, deve dar la possibilità a tutti di partecipare alla “creazione” della ricchezza e quindi del bene nella propria società.
Questa è l’idea che ha fatto sorgere i MONTI DI PIETÀ, che sono nati per motivi di tipo solidaristico prima che di tipo economico: data l’impossibilità per le famiglie meno abbienti di avere accesso al credito ad un equo tasso di interesse, e per questo costrette a rivolgersi agli usurai (cristiani o ebrei) e quindi precipitare in miseria, i francescani della riforma, molto attenti agli aspetti concreti della evangelizzazione, promossero questa istituzione come mezzo di “cura” della povertà e di lotta all’usura. Il capitale di queste istituzioni, che oggi trovano una continuazione ideale nelle varie forme di microcredito, o nelle casse rurali, si accumulava per mezzo di collette, sottoscrizioni, eredità, donazioni, depositi vincolati e questue. Quindi la specificità consiste nella necessità di un intervento benefico iniziale per costituire il peculio di partenza. Una volta creato il capitale, il Monte funzionava sostanzialmente come un banco privato, ma si sceglieva i suoi clienti: i “necessitosi”, cioè i poveri meno poveri, distinti dai veri e propri poveri. Ai necessitosi prestava un pugno di denari, per superare difficoltà contingenti invitandoli ad agire per uscire dallo stato di necessità e recuperare il pegno offerto. Il Monte segna il superamento dell’assistenzialismo elemosiniero e l’avvio di iniziative morali di sostegno civico a quanti non riuscivano a reggere il ritmo del mercato.
A partire dalla fine del Cinquecento, ci fu un cambiamento di mentalità: ci fu la nascita delle Signorie che diedero vita a continue guerre di religione e non che trasformarono l’Italia dei Comuni in terra di continue scorribande di eserciti stranieri, gettando la popolazione in un clima di grande paura e malessere. La fragilità della vita in comune non viene più tollerata, una fragilità già intuita con nitidezza da Aristotele, che affermando che non c’è “vita buona” al di fuori della polis – senza amicizia e reciprocità – aveva riconosciuto una fragilità costitutiva della felicità, che ha bisogno estremo della risposta reciprocante dell’altro, che però non può controllare. La risposta dell’altro resta libera, e dunque incerta diventa anche la pienezza della felicità. La tradizione civile ha accettato questa fragilità, per non rinunciare alla possibilità stessa di una vita pienamente umana. La MODERNITÀ, invece con il suo individualismo ha sviluppato un’altra anima dell’Occidente, quella platonica, che invece ha rifiutato la fragilità di una felicità spesa nella polis, consigliando la fuga dell’altro per la contemplazione del bene in sé, e il progetto moderno è stato proprio il tentativo di costruire una vita in comune rinunciando alla reciprocità e alla fragilità. I padri di questo nuovo paradigma antropologico furono:
– MACHIAVELLI con la sua visione antropologica pessimistica: alla base della vita in comune non può esserci l’amore reciproco ma il timore. C’è il PRINCIPE che libera i propri sudditi (e non più cittadini) dai conflitti distruttivi che l’animal incivile scatena se lasciato libero di agire nella città. Non governa più il mercante (a cui sta a cuore la città e conosce bene i suoi meccanismi perché ci vive, ne è immerso) ma il politico. Non c’è più la crescita della vita della città da parte di che produce la ricchezza e la distribuisce ma il mercante deve solo produrre e il Principe la amministra (distribuendola equamente). Si propone una visione platonica: i filosofi che governano, i cavalieri che difendono la città e i mercanti che producono la ricchezza (l’economia comincia ad essere relegata al campo della sola gestione del denaro).
– HOBBES: Noi non cerchiamo i compagni per qualche istinto della natura, ma cerchiamo l’onore e l’utilità che essi ci danno: prima desideriamo il vantaggio, poi i compagni (homo homini lupis). Rinunciò al civile per salvare il politico.
– MANDEVILLE: non solo non è vero che l’uomo è di fatto un animal civile ma qualora lo fosse per la cultura o l’educazione, dovrebbe tenere a freno le sue virtù perché sono negative per la vita della società. È il vizio che porta il ben-vivere sociale non la virtù. La favola delle api: la favola narra la triste storia di un alveare di api egoiste che vivevano nell’abbondanza; ad un certo punto le api si convertono e diventano altruiste e virtuose. In breve tempo l’alveare precipita nella miseria. Morale: una società viziosa che non combatte i lussi (vizi privati) ma li alimenta, produce ricchezza e benessere (pubbliche virtù). Le virtù invece portano alla rovina economica. Per gli economisti del Settecento il lusso era una molla essenziale per lo sviluppo e la ricchezza delle nazioni (cfr. consumismo)
Se quindi l’umanità ha bisogno, per svilupparsi, della fraternità ne segue come corollario il bisogno di solidarietà e “la solidarietà universale, che è un fatto e per noi un beneficio, è altresì un dovere” (n. 43). All’interno della solidarietà come dovere si inserisce il dovere da parte dell’uomo di custodire il Creato. Questo è il tema principale affrontato nella QUARTA PARTE del documento che ha per titolo Sviluppo dei popoli, diritti e doveri, ambiente.
Qui è fin troppo facile vedere l’influenza del francescanesimo sul rapporto del Creato.
Francesco aveva un atteggiamento equilibrato nel confronti del Creato. Da una parte lo vedeva come espressione di un disegno di amore e verità: “La natura è a nostra disposizione non come un mucchio di rifiuti sparsi a caso, bensì come un dono del Creatore che ne ha disegnato gli ordinamenti intrinseci, affinché l’uomo tragga gli orientamenti doverosi per “custodirla e coltivarla”. Non è materia a cui disporre a nostro piacimento.” (n. 48).
Dall’altra non cadeva in un panteismo o neopaganesimo in cui la Natura diventa più importante della stessa persona umana.
La QUINTA PARTE affronta più direttamente l’aspetto antropologico che fa base a tutto il documento: La collaborazione della famiglia umana.
L’incipit di questa parte recita: “Una delle più profonde povertà che l’uomo può sperimentare è la solitudine. A ben vedere anche le altre povertà, comprese quelle materiali, nascono dall’isolamento, dal non essere amati o dalla difficoltà di amare.” (n.53).
Qui si apre una grande tematica che è il rapporto tra Francesco e Madonna Povertà. Non voglio, chiaramente, affrontarlo in questa sede ma voglio solo fare una piccola riflessione in quanto la Povertà per Francesco aveva a che fare proprio con la relazione tra le persone.
Uno dei motivi per i quali Francesco aborriva il denaro era il fatto che le monete non erano in grado di rappresentare credibilmente la realtà del mondo naturale e sociale: il “lupo di Gubbio”, i lebbrosi incontrati per via e accuditi senza paura fino a condividerne la scodella non appartengono alla città e il denaro non può raffigurarne il valore. Esiste un “altrove” che, come le foreste, circonda la città: qui il denaro non funziona più come mezzo di comunicazione, non spiega e non schematizza la realtà. La povertà di Francesco, e questo sconvolge i suoi contemporanei, sembra consentirgli di scoprire la bellezza di quanti si trovano altrove rispetto ai codici della convivenza ecclesiale, municipale, nobiliare, mercantile e militare, con i quali il denaro non serve per relazionarsi con loro.
Il denaro non è inutile, o meglio, è sterco se tesaurizzato. Francesco dona il mantello e getta nello sterco le monete in quanto non sufficiente per soddisfare le reali esigenze dei frati (fraternità, il rapporto con Dio). Se ciò che rende felice l’uomo è la relazione allora il denaro deve facilitarla e ove la ostacoli allora è meglio usare altre modalità (la reciprocità).
Inoltre, le scelte di povertà volontaria dei frati avevano anche un risvolto “evangelico”nel mondo mercantile: l’uso delle merci, della lana per esempio, fatto dai mercanti che la importano ha come scopo l’offerta alla società di questo bene economico e il loro profitto. Nel caso dei frati che hanno scelto la povertà, l’uso delle lana sarà invece tutto funzionale al soddisfacimento del bisogno di coprirsi e dunque alle necessità stagionali e soggettive. I poveri non volontari, proprio perché i frati fanno un uso limitato dei beni economici, potranno ricevere più denaro in elemosina. Andando al mercato poi scopriranno che il prezzo della lana è più basso di quanto si aspettavano, in quanto la diminuzione della domanda di questa merce, occasionata dalla povertà dei frati o di chi li imita, lo ha ribassato.
La CV si conclude con un’ultima parte, dal titolo Lo sviluppo dei popoli e la tecnica, che affronta il tema delicato dello sviluppo tecnologico e del suo utilizzo. Non cadere nel “mito tecnologico” in base al quale tutto ciò che è tecnicamente possibile fare allora è anche lecito fare.
IL RUOLO DEL TERZ’ORDINE NELLA SOCIETÀ DI LEONE XIII E BENEDETTO XV
Nella storia moderna furono diversi i Pontefici che invitarono il Terz’Ordine ad impegnarsi nell’ambito del sociale.
Accenniamo soltanto a Leone XIII il quale, da sempre attento alle problematiche di ordine sociale, desiderava che la Chiesa desse una risposta alla questione operaia, risposta che si fosse posta in alternativa a quella data dei socialisti. Quindi attraverso documenti e l’aiuto di terziari, come Leon Harmel, il Terz’Ordine alla fine del XIX secolo si impegnò nel campo del sociale. Sfortunatamente i tempi per questo tipo di intervento non erano maturi in quanto si era alle soglie dell’epoca modernista. Pio X impose a tutte le associazioni cattoliche di non immischiarsi nel sociale e nell’economia e così il Terz’Ordine tornò a impegnarsi nella sfera del devozionale.
Con Benedetto xv la preoccupazione più impellente era la pace civile; il Pontefice sottolineò la dimensione di concordia insita nel messaggio francescano, fino a concludere con un vasto appello a tutti i cristiani e alle varie associazioni cattoliche alla cooperazione, alla pace e alla adesione al Terz’Ordine, ancora una volta individuato come strumento adatto per guidare alla perfezione cristiana e far penetrare nella vita comune, ad ogni occasione, lo spirito di Cristo.
A mio avviso anche Benedetto XVI, con la CV, vuole rinnovare l’invito all’OFS ad aprirsi per un impegno nel campo sociale e politico.
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